mercoledì 30 gennaio 2013

Libera Recensione - I sommersi e i salvati, Primo Levi

Su questo libro c'è poco da dire perché c'è troppo da dire. E può sembrare un paradosso, ma non lo è...o se lo è è un paradosso accettabile, questa volta, dalla realtà. Non è l'unico libro scritto da Levi sul tema dell'Olocausto, sulla tragedia infinita dei Lager, che lui ha provato sulla sua carne e sulla sua anima (il più famoso e riconosciuto è indubbiamente "Se questo è un uomo", seguito da "La tregua"), ma è, a mio modesto parere, il più lucido e analitico e, forse proprio per questo, il più atrocemente illuminante.
L'orrore dei Lager e la tragedia umana non passano in secondo piano nell'analisi incredibilmente lucida che lo scrittore compie, parola dopo parola, pagina dopo pagina, in questo preziosissimo documento. Anzi, viene osservata da punti di vista che noi non avremmo colto, viene sminuzzata e riassemblata, viene letta e mostrata  a chiare lettere, smembrata e studiata.
Quello che ne deriva è qualcosa di sconvolgente, qualcosa che ti colpisce come uno schiaffo potente e, come uno schiaffo potente sa fare, continua a bruciare prima sulla pelle e poi, per sempre, sull'anima.
In questi giorni dedicati alla memoria di ciò che è stato in quegli inferni d'Europa, forse dovremmo almeno avere il coraggio e la voglia di prenderci questo schiaffo e poi, inevitabilmente, lasciarlo bruciare dentro di noi.

Da questo libro:


"A distanza di anni, si può oggi ben affermare che la storia dei lager è stata scritta quasi esclusivamente da chi, come io stesso, non ne ha scandagliato il fondo. Chi lo ha fatto non è tornato, oppure la sua capacità di osservazione era paralizzata dalla sofferenza e dall'incomprensione."

"L'ascesa dei privilegiati, non solo in Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie. E' compito dell'uomo giusto fare guerra ad ogni privilegio non meritato, ma non si deve dimenticare che questa è una guerra senza fine."

"Non esiste proporzionalità tra la pietà che proviamo e l'estensione del dolore da cui la pietà è suscitata: una singola Anna Frank desta più commozione delle miriadi che soffrirono come lei, ma la cui immagine è rimasta in ombra. Forse è necessario che sia così; se dovessimo e potessimo soffrire le sofferenze di tutti, non potremmo vivere. Forse solo ai santi è concesso il terribile dono della pietà verso i molti; ai monatti, a quelli della Squadra Speciale, ed a noi tutti, non resta, nel migliore dei casi, che la pietà saltuaria indirizzata al singolo, al Mitmensch, al co-uomo: all'essere umanodi carne e sangue che sta davanti a noi, alla portata dei nostri sensi provvidenzialmente miopi."

"In quel momento, in cui ci si sentiva ridiventare uomini, cioè responsabili, ritornavano le pene degli uomini: la pena della famiglia dispersa o perduta; del dolore universale intorno a sé; della propria estenuazione, che appariva non più medicabile, definitiva; della vita da ricominciare in mezzo alle macerie, spesso da soli."

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