sabato 30 novembre 2013

La luce che brilla nel nero

Non ce l'hai fatta Ison, anche se tutti ci speravamo. 
Avevamo bisogno di vederti lì, ferma e brillante nel cielo, con la tua coda di cometa a dipingere di luce l'universo buio. Avevamo bisogno che ci dicessi che l'infinito esiste, e che lo facessi nel modo più semplice possibile: la luce che brilla nel nero, e che si muove, che va, che non sta ferma, che arriva da non si sa dove e che, sfioratici, arriverà lontano. Avresti portato con te un pezzo di noi, Ison. Un pezzo dei nostri cuori appesi a mille immagini di sogni infranti o appena nati, mille sospiri di anime perse, miliardi di voci, di dita, ad indicarti lassù.
Non ce l'hai fatta, Ison. 
Mentre viaggiavi veloce nel silenzioso infinito e gettavi uno sguardo, solo un rapidissimo sguardo ridente alla Terra, il Sole ti ha fermata.
Non lo sapevi, Ison. 
Non lo sapevi dei nostri battiti del cuore, della paura dei nostri figli, degli sguardi d'oro dei nostri bambini, preziosi più dei gioielli. Non lo sapevi, perché se lo avessi saputo saresti stata più attenta.
Non ce l'hai fatta, Ison. 
A dirci come viaggiare, a consigliarci dove andare. Sei svanita nell'immenso calore che ci dona le albe e i tramonti dei giorni, senza che facessimo a tempo a capire che cosa volessi dirci mentre passavi per caso di qua.
Non ce l'hai fatta, Ison, e miliardi di braccia e di sguardi si sono abbassati quaggiù, perché non sanno più guardare il Cielo senza che qualcuno gliene consigli il motivo.
La luce che brilla e sconfigge il nero, Ison, miliardi di sguardi e di cuori, quaggiù, non la vedono più.

martedì 19 novembre 2013

Le perle di Victor Hugo - #1

L'onda e l'ombra

Un uomo in mare!
Che cosa importa! La nave non si ferma. Il vento soffia, quel tetro vascello ha una rotta che è obbligato a continuare. E va innanzi.
L'uomo sparisce, poi riappare, si tuffa e risale alla superficie, chiama, tende le braccia, non lo si ode; la nave, fremendo sotto l'uragano, è completamente assorta nella sua manovra, i marinai e i passeggeri non vedono neppure l'uomo sommerso; la sua miserabile testa non è che un punto nell'enormità delle onde.
Egli lancia grida disperate nell'immensità. Quale spettro, quella vela se che se ne va! La guarda, freneticamente. Essa si allontana, impallidisce, svanisce. Egli era là, poco fa: faceva parte dell'equipaggio, andava e veniva sul ponte cogli altri, aveva la sua parte di aria e di sole, era un vivente. Ora, che cos'è dunque accaduto? E' scivolato, è caduto. E' finita.
E' nell'acqua mostruosa: non ha più sotto ai piedi che fuga e rovina. I flutti rotti e frastagliati dal vento l'attorniano orribilmente, i moti dell'abisso lo portano via, tutti i brandelli dell'acqua si agitano intorno alla sua testa, una plebaglia di onde sputa su di lui, confuse aperture lo divorano per metà; ogni volta che si inabissa intravede dei precipizi pieni di oscurità; orribili vegetazioni sconosciute lo attanagliano, gli legano i piedi, lo trascinano a sé; sente che diventa abisso, fa parte della schiuma; i flutti se lo gettano l'un l'altro, beve l'amarezza, l'oceano vile si accanisce ad annegarlo, l'enormità gioca con la sua agonia. Gli sembra che tutta questa acqua sia odio.
Tuttavia lotta, cerca di difendersi, cerca di sostenersi, fa degli sforzi, nuota. Lui, questa povera forza subito esaurita, si oppone all'inesauribile.
Dov'è dunque la nave? Là in fondo. Appena appena visibile nelle pallide tenebre dell'orizzonte.
Le raffiche soffiano; tutte le schiume lo soffocano. Alza gli occhi e non vede che il livido delle nubi. Assiste agonizzando alla immensa pazzia del mare. E' suppliziato da questa stessa pazzia. Sente dei rumori estranei all'uomo che sembrano venire da oltre la terra e da non si sa quale spaventoso aldilà.
[...]
La notte scende, sono ormai ore che nuota, le sue forze sono al termine; quella nave, quella cosa lontana sulla quale ci sono degli uomini, è sparita; egli è solo nel formidabile baratro crepuscolare, vi sprofonda, si irrigidisce, si storce, sente sopra di sé le onde immani dell'invisibile; chiama.
Non ci sono più uomini, Dov'è Dio?
Egli chiama. Qualcuno! Qualcuno! Chiama ancora. Niente all'orizzonte. Niente in cielo.
[...]
Intorno a lui l'oscurità, la nebbia, la solitudine, il tumulto tempestoso e incosciente, l'increspamento indefinito delle acque selvagge. In lui, l'orrore e la stanchezza. Sotto di lui l'abisso. Non un punto di appoggio. Pensa alle avventure tenebrose del cadavere nell'ombra illimitata.
Il freddo intenso lo paralizza, le sue mani si contraggono, si chiudono e afferrano il nulla. Vento, nembi,turbini, soffi, stelle inutili! Che fare? Il disperato si abbandona, stanco, si rassegna a morire, si lascia travolgere, si lascia andare. lascia che il destino si compia, ed ecco che rotola per sempre nelle profondità lugubri della voragine.
O marcia implacabile delle società umane! Perdite di uomini e di anime lungo il cammino! Oceano dove cade tutto ciò che lascia cadere la legge! Sparizione sinistra del soccorso! O morte morale!
Il mare è l'inesorabile notte sociale  dove la legge penale getta i suoi dannati. Il mare è l'immensa miseria.
L'anima, alla deriva in questo gorgo, può diventare un cadavere! Chi la risusciterà?

Victor Hugo - I Miserabili

domenica 3 novembre 2013

Quell'arrivederci che ti rimane impigliato nell'anima...

Non è facile accettare di essere nati in autunno. In qualche modo astratto, questo, l'ho sempre pensato fin da bambina. Odiavo l'autunno, anche se portava con sé il mio compleanno. Odiavo il fatto che l'estate dovesse finire, che il verde dei prati e delle foglie degli alberi dovesse ingiallire fino a morire, che il sole divenisse pian piano meno caldo, che il buio avanzasse ad obbligare il giorno a spegnersi presto anticipando la sera.
Eppure è da lì, che vengo.
E' in uno di quei giorni dagli alberi di mille colori che sono nata e in cui mi è stato messo il nome Marina, ed è sempre in uno di quei giorni che sono stata battezzata. In un certo senso io gli appartengo, all'autunno. Che sia da questo che nasce la mia malinconia? Dal fatto che sono figlia di quel periodo dell'anno in cui le foglie si infiammano roventi prima di cadere? In cui il sole getta i suoi ultimi, dolcissimi raggi tiepidi prima di nascondersi dietro alla coltre dell'inverno? Il periodo della vendemmia, in cui gli ultimi frutti scendono dai rami; il periodo in cui i campi lentamente si dispongono all'arrivo del freddo.
Non è facile, no, accettare di essere nati nell'ultimo soffio di vento caldo. Qualcosa di quell'arrivederci ti rimane impigliato tra i capelli e nell'anima, ti scherma gli occhi formando la lente con la quale osserverai il mondo.
Non è facile, ma adesso io l'autunno lo amo. Amo i suoi tappeti di foglie gialle sparsi ovunque per le strade e il modo in cui ridanno vita anche ai cementi più grigi o alle terre più brulle, amo la sorpresa che senti quando una di loro ti sfiora cadendo dal suo ramo e sembra portarsi dietro una risata e un sospiro. Amo quella forza vitale che si sprigiona e che puoi respirare quando guardi il sole attraverso i rami colorati e ondeggianti.
Ma più di ogni cosa amo la promessa che fa... Che non è la fine, che il buio che arriva non durerà per sempre, che tutto è eterno ed eternamente tuo, se lo vuoi. Che nulla, e nessuno, muore davvero.
Non è facile accettare di essere nati in autunno, e nemmeno di appartenergli.
Ma è bello.