mercoledì 6 gennaio 2016

Libera recensione - Acciaio, di Silvia Avallone

Acciaio, di Silvia Avallone
Appoggio il mio bicchiere di spritz sul tavolo e sorrido, nella luce a mala pena tiepida di un pranzo di inizio gennaio. Sorrido, ma mi accorgo di avere gli occhi lucidi. Mia madre, con cui sono a pranzo, mi ha appena detto di aver incontrato un mio vecchio amico e che mi saluta. Ora, lui ha un bellissimo bimbo che gli somiglia tantissimo, dice mia madre, e sta bene.
Sta bene.
Ed è questo che mi fa sorridere e piangere al tempo stesso. Non dico altro, a lei. Ma dentro, qualcosa si smuove. Il domino dei ricordi si è messo in azione. A volte rimane immobile e stabile sotto anni di polvere, nonostante l'equilibrio apparentemente precario e poi... poi una voce, un nome, un viso riemerge dal passato e la prima tessera cade, senza esitazione alcuna, dando inizio alle danze. Rimango così, per qualche minuto in silenzio. Non sono al tavolo di un pranzo Agennaio e non è il 2016. Sto urlando, sto urlando qualcosa di indefinibile in una sera d'estate di quasi 20 anni fa... il buio ancora non è sceso del tutto, è rimasto a metà strada tra l'imbrunire e la notte, fa caldo, e la vita è appena esplosa dentro di me e dentro gli amici che mi circondano. Sono seduta su un motorino sospeso sul suo cavalletto, intorno impazza il casino che solo noi eravamo in grado di produrre e generare. Il motorino non è mio...di un amico o del mio ragazzo di allora. Ridiamo. Ridiamo. Ridevamo anche quando non c'era quasi nulla da ridere, noi. E non era manacanza di rispetto, ma soltanto voglia di vivere.
Soltanto voglia di vivere.
Mia madre mi riscuote dai pensieri, mi chiede se voglio il caffè, adesso, nel 2016. Dico di no scuotendo la testa, mi alzo e accendo il pc: oggi è il giorno giusto per recensire Acciao. - penso - e così lo faccio. Lo spritz è finito e il calore dell'estate di vent'anni fa è più forte del sole svogliato del gennaio del 2016.
Io non conosco Silvia Avallone, della sua vita non so nulla. Ho provato blandamente a cercare notizie su di lei, volevo capire... capire se qualcosa potesse rimandare a dove e come è cresciuta, se da qualche parte si accennasse almeno lontanamente a qualche sua esperienza di gioventù. L'ho fatto perché solo chi ha vissuto "la strada", solo chi ci è cresciuto, solo chi ci ha lasciato amici sull'asfalto o sotto terra, sa parlarne. Solo chi ha provato a starci in mezzo in un certo modo, sa riconoscerla e darle sembianze abbastanza credibili da poter essere raccontate. Non ho trovato nulla, su di lei, ma c'è da dire che io sono una pessima ricercatrice, senza nemmeno una briciola di pazienza e metodo... mi affido quindi alla sua opera, e parlo di questa.
Acciaio è, senza troppi giri di parole, un capolavoro.
E a dirlo è una ragazza di periferia, a dirlo è una ex ragazza che per strada ha stretto legami, amori e patti di sangue. A dirlo sono io, che non sono nessuno, certo, ma che alcune cose almeno in parte le ho vissute e qui, tra queste pagine, io le ho riconosciute.
Ho riconosciuto la fatica, l'immensa fatica che appesantisce le spalle di alcune persone; e lo fa con costanza e tenacia. Ho riconosciuto la lontananza. La lontananza dell'irrangiungibile, quello che ad altri è concesso e a te invece no, e nessuno ti ha mai spiegato davvero perché. Ho visto la forza, potente e sanguigna, di chi quella fatica la vive ma vive anche altro, vive anche tutto quello che sta nel mezzo e che è fatto (specie ad una certa età che si aggira tra i 13 e i 15 anni) soprattutto di sogni astratti e aspirazioni titaniche. Ho riconosciuto l'amicizia. Quel tipo di amicizia. Quello che nelle grandi ville e nei bei giardini non esiste, e nemmeno nei curati appartamenti di città con i loro ordinatissimi parchi giochi. Ho visto la rabbia e la disperazione, la lotta della vita che vuole spaccare il cemento (o l'acciaio) come i fiori che in primavera si ostinano a sbocciare dove nessuno scommetterebbe mai su di loro. Ho visto gli errori. Indimenticabili, irrimediabili errori che si commettono in quella dimensione tutta fatta di vita allo stato puro e brado, quasi animalesco e selvaggio. Ho visto la rassegnazione triste di chi soccombe senza troppe grida, cade e rimane a terra e a terra impara a sopravvivere senza più pretese.
Ho visto il VERO.
In questo libro, Silvia Avallone dice semplicemente il VERO.
Dice il vero su una realtà di cui l'Italia è purtroppo maestra. Maestra in un senso primario, senza titoli o vane glorie. Maestra e narratrice di questi angoli di mondo grandi intere città ed intere generazioni. Come dice la stessa autrice nel libro: "Cosa significa crescere in un complesso di quattro casermoni, da cui piovono pezzi di balcone e di amianto, in un cortile dove i bambini giocanno accanto a ragazzi che spacciano e vecchie che puzzano? Che genere di visione del mondo ti fai, in un posto dove è normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sapere niente del mondo, non sfogliare il giornale, non leggere i libri, e va bene così?"
Non riesco ad esprimere diversamente ciò che provo per questo libro, mi sento solamente di dire grazie all'autrice. Se l'ha vissuto, almeno in parte, quell'intricato e complciato mondo fatto di sopravvivenza e sguardi aggrappati al futuro, per aver avuto il coraggio di parlarne; e se non l'ha vissuto, per aver avuto la capacità di scorgerlo, comprenderlo, raccontarlo così tanto bene da smuovere le terre nascoste di chi l'ha fatto.
E grazie, in ultimo, anche per la dedica all'inizio del libro: "a Eleonora, Erica e Alba le mie migliori amiche.... e a tutti quelli che fanno l'acciaio."
Perché io, qualcuno che in qualche modo e in parte "faceva" l'acciaio, l'ho conosciuto.
Era mio padre.
E' morto 21 anni fa.
Leggetelo, sono assolutamente certa che non ve ne pentirete...


Da questo libro:

"E una risata così violenta che anche da quella distanza, anche soltanto guardandola, ti scuoteva. Sembrava di entrarci davvero, tra i denti bianchi. E le fossette sulle guance, e la fossa tra le scapole, e quella dell'ombelico, e tutto il resto."

"Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro. [...] via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria." 

"Perenne desiderio di scopare, là dentro. La reazione del corpo umano nel corpo titanico dell'industria: che non è una fabbrica, ma la materia che cambia forma."

"Alessio rise. Risero insieme, abbracciati e stanchi, alla luce della lampadina che pendeva dal soffitto e dell'alba che stava sorgendo. In quel momento, da dietro lo spigolo della porta, apparve Anna. Non disse niente. Rimase lì, pulita e scalza. Li guardava, non vista, come un piccolo angelo in pigiama estivo. Nel suo alfabeto, quella era una cosa molto bella. La sua mamma con il viso nell'incavo tra il collo e la spalla di suo fratello, era forse la cosa più bella. Quella per cui valeva la pena, nella vita, non barare."

"Non è qualcosa che perdi. E' qualcosa che perde te."