sabato 6 maggio 2017

Le perle di Jonathan Safran Foer #1

A mio figlio non nato: non sono stato sempre in silenzio, prima parlavo, parlavo, parlavo, parlavo e non riuscivo a tenere la bocca chiusa, il silenzio si è impadronito di me come un cancro, successe una delle prime volte che mangiavo in America, quando tentai di dire al cameriere: "Il modo in cui mi ha dato quel coltello mi ricorda..." ma non riuscii a finire la frase, il nome di lei non usciva, ci riprovai e non usciva ancora, lei era chiusa dentro di me, che strano, pensai, che frustrazione, che cosa patetica, che tristezza, tirai fuori di tasca una penna e scrissi sul tovagliolo "Anna", poi risuccesse due giorni dopo, e il giorno dopo ancora, lei era l'unica cosa di cui volessi parlare, continuava a succedere, quando non avevo una penna scrivevo "Anna" nell'aria - a rovescio e da destra a sinistra - di modo che la persona con cui stavo parlando la vedesse, e quando ero al telefono componevo i numeri - 2,6,6,2 - affinché la persona sentisse quello che non potevo, da me, dire.
"Anche" fu fu la seconda parola che persi, probabilmente perché era così simile al suo nome, che parola semplice da dire, e che profonda parola da perdere, dovevo dire "eziandio", che suonava ridicolo, ma era proprio così, "vorrei un caffè ed eziandio un dolce", a nessuno sarebbe piaciuto sentirsi in questo modo. "Volere" è il verbo che persi poco dopo, non perché avevo smesso di volere le cose - le volevo più di prima - solo che non riuscivo più ad esprimere il volere, quindi al suo posto dicevo "desidero": "Desidero due panini" dicevo al panettiere, ma non era esattamente così, il senso dei miei pensieri cominciava a fluttuare via da me, come foglie che cadono da un albero nel fiume. "Venire"lo persi un pomeriggio al parco con i cani, persi "bene" mentre il barbiere mi girava verso lo specchio, persi "peccato", il nome e l'esclamazione nello stesso momento, e fu un peccato. Persi "portare" e persi pure le cose che portavo - "diario", "matita", "moneta", "portafoglio" - e persi anche "perdere". Dopo un po' mi restava soltanto un pugno di parole, se qualcuno faceva qualcosa per me gli dicevo: "La parola che viene prima di 'non c'è di che'", e se avevo fame indicavo la mia pancia, e dicevo "Sono il contrario di pieno", avevo perso "sì", ma mi restava "no", perciò quando qualcuno mi chiedeva: "Sei Thomas?" io rispondevo: "Non no", ma poi persi "no" e allora andai da un tatuatore e mi feci scrivere Sì sul palmo della mano sinistra e NO sul palmo della destra, che dire, non è che questo renda la vita meravigliosa, ma la rende possibile, quando mi stropiccio una mano contro l'altra, in pieno inverno, mi riscaldo con l'attrito del sì e del no, quando batto le mani mostro il mio gradimento unendo e dividendo sì e no, dico libro o quaderno aprendo le mani dopo averle battute, per me ogni quaderno è l'equilibrio del sì e del no, anche questo, il mio ultimo quaderno, soprattutto questo.
E il cuore mi va in pezzi, certo, in ogni momento di ogni giorno, in più pezzi di quanti compongano il mio cuore, non mi ero mai considerato di poche parole, tanto meno taciturno, anzi non avevo proprio mai pensato a tante cose, ed è cambiato tutto, la distanza che si è incuneata tra me e la mia felicità non era il mondo, non erano le bombe e le case in fiamme , ero io, il mio pensiero, il cancro di non lasciare mai la presa, l'ignoranza è forse una benedizione, non lo so, ma a pensare si soffre tanto, e ditemi, a cosa mi è servito pensare, in che grandioso luogo mi ha condotto il pensiero? Io penso, penso, penso, pensando sono uscito dalla felicità un milione di volte, e mai una volta che vi sia entrato. "Io" fu l'ultima parola che fui capace di dire ad alta voce, è tremendo, ma successe così, me ne andavo per il vicinato dicendo "Io, io, io, io". "Thomas, bevi un caffè?" "Io." "Con qualcosa di dolce,forse?" "Io." [...]. Volevo tirare il filo, disfare la sciarpa del mio silenzio e ricominciare daccapo e invece dicevo "Io". So di non essere l'unico malato di questa malattia, sentite i vecchi in strada, alcuni gemono: "I-o, i-o, i-o", ma si aggrappano, alcuni, alla loro ultima parola, dicono "io" perché sono disperati, non è un lamento ma una preghiera, e poi persi anche "io" e il mio silenzio fu completo. Cominciai a portare con me quaderni bianchi come questo, che riempio di tutte le cose che non posso dire [...] e invece di cantare sotto la doccia scrivevo le parole delle mie canzoni preferite, l'inchiostro tingeva l'acqua di blu, di verde o di rosso, e la musica mi scorreva lungo le gambe, alla fine di ogni giornata portavo il quaderno a letto e leggevo le pagine della mia vita.
(Jonathan Safran Foer - Molto forte, incredibilmente vicino)

Un pochino più liberi, almeno per un po'.

Ognuno cerca il suo modo per fuggire da qualcosa. Da cosa scappiamo, solo nella profondità di noi stessi lo sappiamo e, difficilmente, è qualcosa che è possibile tradurre in parole sufficientemente comprensibili. C'è chi scappa per nascondersi, chi lo fa per rigenerarsi, chi per curarsi, chi per trovare la forza di ritornare. L'essenziale è perdersi, almeno per qualche ora.
Perdere il senso del tempo, perdere i ricordi, perdere i progetti, perdere tutto per avere solo le tue mani, i tuoi occhi, e l'attimo presente... quello che acchiappi e sfugge, acchiappi e sfugge, e via così, fino al prossimo futuro.
Si sceglie la propria fuga a seconda del bisogno uguale e contrario di ciò che si ha dentro. E forse, un senso compiuto la fuga non ce l'ha.
Poi, si torna.
Si ritorna quasi sempre, ma un pochino più liberi, almeno per un po'.

mercoledì 3 maggio 2017

Dondola, Marina, dondola... è ancora tutto perfetto.

Sì, esistono ancora degli istanti in cui torno lì. E sono istanti che hanno un colore e un sapore preciso, perfetto. Basta che io socchiuda gli occhi e lasci scivolare la memoria… basta poco, per sentire il vento lieve sfiorarmi le guance mentre mi lascio dondolare sulla mia altalena. Era un’altalena fatta di corde bianche legate a un’asse di legno chiaro appesa a un grande ramo dell’albicocco preferito del mio giardino. Ed io ci ero seduta sopra, con strette nei pugni le sue corde, e in tasca la mia piccola manciata di anni di vita. Lasciavo che il pomeriggio d’estate si fermasse per qualche minuto, solo per me. Davanti a me avevo un cespuglio di rose bianche, se dondolavo al massimo della velocità le punte dei miei piedi arrivavano a sfiorarlo, ma raramente guardavo innanzi a me. Molto più spesso guardavo in su, cercavo di sbirciare il cielo attraverso l’intrico dei rami dell’albicocco e, me lo ricordo bene, molte volte lo ringraziavo. Era lui a tenermi appesa, nella mia fantasia di bambina lui era saggio e amorevole e sorrideva della mia allegria come potrebbe fare un nonno osservando la sua nipotina. Erano momenti, quelli, che deliberatamente rubavo all’universo credendo che me li avrebbe restituiti, in qualche modo. Perché sentivo che era un mio inalienabile diritto salire sulla mia altalena e vincere il tempo come fosse un giocattolo messo a mia totale disposizione.
Esistono ancora, e mi stupisce, istanti in cui io… sono lì. A volare nel vento, a guardare in alto scoprendo infiniti stralci di cielo, il sole filtrato dalle foglie a respirarmi tiepido sul viso, le mille carezze di quello che avevo. Davanti a me rose bianche sbocciate, spine lontane, innocue. L’erba ondeggiante, la siepe e il sentiero… Carezze di sguardi, carezze di odori, carezze di mani invisibili che sono i ricordi. È bello sentire le mie mani ridiventare piccole e un po’ più paffute e stringere ancora le corde di quell’altalena sospesa nel tempo. Bello… la maglietta e i pantaloncini, le scarpe da tennis consumate dalle corse e dalle mille arrampicate sugli alberi, le ginocchia sbucciate, la scritta sul muro; la vedo ma non riesco a leggere cosa c’è scritto. Argo che abbaia, svogliato, ha caldo, è assonnato. Sotto il biancospino dorme Pantera, è arrivato da poco, dorme in silenzio come un’ombra nel buio. Dalle finestre aperte cade giù qualche parola, le voci di mio padre e mia madre che parlano di qualcosa, poi si spostano in casa, non li sento più. Mio fratello è via con gli amici, mio cugino forse sta riposando, tra poco scenderà in giardino e potremo giocare… ma per adesso io sono qui, a dondolare senza pensare. Canticchio qualcosa, non so cosa, canticchio sempre qualcosa, quando sono sulla mia altalena… sento un rumore, qualcuno che fischia, alzo lo sguardo. Mio padre mi guarda dalla finestra della sua camera, mi fa l’occhiolino, poi volge anche lui il viso al cielo e chiude gli occhi accecato dal sole.
Sorrido, lui c’è, lui è vivo ed lì alla finestra…
Dondola, Marina, dondola… è ancora tutto perfetto.
Dondola, Marina, dondola, forse il tempo si è fermato davvero…
Dondola, dondola… ti prego, fallo per me.

Il cane perdona. Il gatto, mai.

Il cane, quando è in difficoltà, nella maggior parte dei casi si fida e si affida. Lascia che gli altri si occupino di lui, lascia che ci si muova e si decida intorno a lui e per questo rende facili i soccorsi.
Il gatto, no. Il gatto, anche se in difficoltà, nella maggior parte dei casi non si fida. Soffia a chi si avvicina, graffia chi cerca di prenderlo. Ha paura che nessuno sappia cosa è meglio per lui e che, proprio perché si trova in difficoltà, lo si ritenga un bersaglio più facile e ci si approfitti della sua momentanea debolezza.
Non è semplice soccorrere un gatto.
Non è mai semplice aiutare chi è abituato a salvarsi da solo.
Ma non è nemmeno semplice fargli male e farla franca.
Se si salva, ricorderà per sempre chi l'ha picchiato mentre era imprigionato.
Il cane perdona.
Il gatto, mai.

martedì 2 maggio 2017

Le perle di Stephen King - #4

Forse è per questo che Dio ci fa piccoli e vicini al suolo.
Forse è perchè sa che dovremo cadere spesso e sanguinare molto prima di imparare quell’unica semplice lezione. Si paga per quel che si ottiene, si ottiene ciò per cui si paga… e prima o poi quel che ti appartiene torna a te.
(It, Stephen King)